Cento anni di Forte Belvedere. Cento anni in cui la storia non ha mai attraversato con tanta prepotenza il nostro
mondo. E un luogo come Forte Belvedere riassume in maniera splendida gli insegnamenti e la memoria che questo vivace passaggio ci ha lasciato in eredità.
Nata come un’opera corazzata in previsione di un conflitto dato sempre più per certo (era il maggio del 1912)‚ oggi le sue fredde mura sono meta di famiglie e – soprattutto – scolaresche che vengono ogni anno dal nord Italia per conoscere le vicissitudini della Grande guerra in questi luoghi oggi incantevoli.
Nel periodo della sua costruzione, forti come questo erano il fiore all’occhiello del decadente Impero austroungarico, un Impero che viveva la belle epoque come ultimo atto di un’epoca che doveva fare i conti con quei mutamenti sociali e politici che, come braci sotto la cenere, avrebbero da lì a poco stravolto il mondo fino a quel momento conosciuto. Forte Belvedere è anche l’emblema di quanto il rapporto con il giovane Regno d’Italia fosse travagliato, pervaso in alcune sue sfumature da un sentimento di autentico odio.
Un’Italia che, non dimentichiamo
Pochi decenni prima aveva strappato la Lombardia e il Veneto a Vienna, regioni già molto fiorenti nel XIX secolo, e che Francesco Giuseppe negli ultimi anni della sua vita – a cui venne risparmiato il triste epilogo della dissoluzione della sua dinastia e del suo Impero – aveva sempre guardato con nostalgia. Quando il cantiere era già in piena attività qui sugli Altipiani, i meccanismi dell’inevitabile erano in moto, gravidi di conseguenze. I Balcani scalpitavano, la Russia aveva fatto intendere che non si sarebbe tirata indietro nell’aiutare ai fratelli slavi, la Germania garantiva fiducia, l’Italia presto o tardi avrebbe dovuto pagare una volta per tutte.
Oggi sappiamo che queste convinzioni, in quella maledetta estate nel 1914, fecero precipitare gli eventi; senza che nessuno se ne rendesse conto le cose sfuggirono di mano a tutti. Ma tali convinzioni erano ancora granitiche, qui, nel 1912: in caso di guera, l’Italia doveva essere frenata, quanto meno contenuta, per sbrigare prima la matassa o oriente e poi arrivare alla resa dei conti definitiva. Ecco perchè i forti. Ecco perchè qui a ridosso di quello che una volta era un confine di stato fra due realtà inconciliabili che non potevano essere più diverse.
Ecco perchè lo sciagurato richiamo della guerra anche in un angolo così sperduto dell’Austria-Ungheria. Oggi le foto e i filmati – muti e sgranati – di un’intera generazione che affolla le stazioni di tutta Europa, fra familiari festanti e bande musicali, fiori e sorrisi, prima di raggiungere i fronti di battaglia, provocano stupore e commozione. Si vedono volti giovani ancora ignari di essere tradotti verso una guerra che stava per rivelarsi un massacro, una guerra che, tutto sommato, in altre forme e luoghi, non è mai terminata. Oggi ci si chiede da dove si attingesse a tanto ottimismo.
Per ironia della sorte, circa un mese prima della messa in posa dell’ultima pietra a Forte Belvedere, si consumava nell’Oceano Atlantico il dramma del Titanic, un eloquente simbolo di quanta fede nel positivismo e nel progresso avesse portato l’umanità ad una sicurezza di cui nessuno coglieva l’insito e terrificante prezzo.
Ci si chiede se la notizia arrivò anche qui sugli Altipiani, se ufficiali a capomastri lessero la notizia; se colsero l’insegnamento di un avanzamento tecnologico che messo in pratica sui campi di battaglia serebbe stato al di fuori di ogni portata e pietà. O forse tale notizia fu trascurata e vista con occhi indifferenti: “A noi non capiterà!”, “Noi saremo più scaltri!”.
Un luogo centenario
A cent’anni di distanza, Forte Belvedere, in una bella giornata di sole estivo, circondato da bambini vocianti, famiglie a passeggio con i cani, giovani coppie all’avventura o anziani accaldati, perde parte della sua austerità. La luce accecante, i rumori festosi, il continuo viavai di persone, rende inverosimile l’idea che invece questo luogo fu una dei tanti teatri di guerra, dove le bombe infuriavano e rovesciavano pietre con violenza inaudita e i soldati, rintanati dentro un sargofago di cemento, terrorizzati, coi nervi a pezzi, aspettavano solamente che l’inferno finisse.
Eppure basta una breve visita all’interno per riacquistare il senso del ricordo: gallerie umide e interminabili, pareti imbiancate di calce, angoli bui e sinistri… quello era il palcoscenico dove una guarnigione scese a patti con l’orrore. Sembra quasi di sentirli, quando il vocio esterno a poco a poco scema, gli ultimi turisti se ne vanno e fa capolino il crepuscolo, restituendo a poco a poco il silenzio a questi luoghi. Sembra di sentirli, quindi:
pregare, urlare, imprecare, piangere, quasi si vedono correre come formiche impazzite, fra scalette e corridoi in direzioni delle le postazioni di combattimento attaccati ad un senso del dovere sconcertante, fra scoppi e grida, fra compagni feriti e fumo, attorniati da mille esempi di eroismo o di viltà…
Cent’anni di Forte Belvedere significano anche questo: sforzarsi di ascoltare quelle voci, cercare di capire quello che hanno da dirci oggi. Perchè i tempi avanzano come hanno sempre fatto, cambiano le guerre e le tecnologie o le generazioni, ma la paura, il dolore, la sofferenza, il rimorso, la speranza, la compassione e un amore smisurato per la vita, questi sono valori e sentimenti universali, immutati, veri cent’anni fa come ora.
E queste voci che scuotono la nostra coscienza, ci ricordano di quanto siamo fragili e fortunati, in fondo, a essere cresciuti nel luogo e nell’epoca giusta, noi che a volte, troppo facilmente, trascuriamo il fatto che queste cose accadono ancora e che non c’è nulla di più ripugnante della morte a buon mercato. Perchè l’abisso non è mai troppo lontano: e cancellare la memoria e rassicurarci continuando a ripeterci “A noi non succederà!”, “Noi seremo più scaltri!” è il servizio peggiore che possiamo dare a noi e alle generazioni che ci seguiranno. Se noi umilmente ci porremo in ascolto, allora anche Forte Belvedere avrà un senso.
Capiremo che Forte Belvedere non è solo un edificio militare della Prima guerra mondiale colmo di oggetti conservati all’interno di vetrine, ma è una magnifica occasione per riflettere e renderci più consapevoli.
E tutto questo è stato possibile, fin dagli anni Trenta, da chi ha creduto e si impegnato a dare dignità a quello che altrimenti sarebbe stato al massimo uno dei tanti siti storici della zona: il riferimento ovvio va alla famiglia Osele.
Per interi decenni ha lavorato con assiduità per trasformare una rovina dimenticata in un luogo della memoria, rendendo giustizia ai soldati che lì hanno combattuto e sono morti e dando a noi la possibilità di condividere questo prezioso patrimonio.
Salvare Forte Belvedere dall’oblio è stato regalare a noi la possibilità di ascoltare e capire, se ci porremo nella condizione giusta per farlo.
Qualsiasi fosse lo scopo per cui venne costruito, oggi Forte Belvedere è il monumento alla dedizione e alla incredibile abilità con cui quegli uomini di cent’anni fa lo realizzarono, a chi vi ha vissuto, a chi se ne è preso cura fino a oggi.